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Deregolare Privatizzare Svendere | Trancemedia.eu

Deregolare Privatizzare Svendere

Versione multilingue del documentario “Catastroika – Privatisation Goes Public” di Aris Chatzistefanou e Katerina Kitidi (Grecia, 2012). Clic su immagine, poi ricerca sottotitoli italiani o altre lingue, nella ruota dentata. Apre dal canale youtube di Movimienta Productions. Si prega di ignorare il player inattivo soprastante.

Passo uno. Fino al 1990, in Italia il controllo pubblico delle banche era il più elevato tra i Paesi europei: lo Stato controllava il 74,5% degli istituti bancari a fronte del 61,2%, della Germania e del 36% della Francia.

Con l’intento di accrescere la competitività delle banche italiane sui mercati nazionali e internazionali, il ministro del Tesoro (1987-1989) Giuliano Amato si è fatto promotore di una riforma, approvata poi nel 1990 con il nome di legge Amato, con la quale veniva avviato un processo di stravolgimento del sistema bancario.

La legge Amato ha permesso alle banche italiane, sino a quel momento istituti di credito di diritto pubblico, di trasformarsi in società per azioni di diritto privato, portando all’azzeramento della proprietà pubblica delle nostre banche. Oggi allo Stato non restano che piccole quote di minoranza in banche di importanza marginale, cosa che Francia e Germania si sono ben guardate dal fare.

Analogamente a quanto stava accadendo oltreoceano con l’abolizione del Glass-Steagall Act, la legge Amato abolisce la distinzione tra banche commerciali e banche d’affari e permette di operare contemporaneamente come imprese commerciali e di investimento, cosa che fino a quel momento era vietata. E con il Testo Unico delle leggi bancarie, entrato in vigore nel 1994, l’attività bancaria si afferma sempre più come attività imprenditoriale: “Le banche possono operare senza limitazioni di operazioni, servizi, scadenze nella raccolta e nell’impiego dei fondi, e possono emettere obbligazioni o strumenti di deposito”.

Dopo la privatizzazione, tutte le banche sono state coinvolte in processi di concentrazione e fusione. Dal 1990 al 2016, il numero delle banche italiane si è dimezzato, da 1.200 a quota 600, e si sono creati 5 grandi gruppi che da soli controllano oltre il 50% del mercato del credito. Esattamente quello che, secondo le dichiarazioni del Fondo Monetario Internazionale, succede in Europa dove “il sistema finanziario è in mano ad un numero ristretto di grandi banche: nella maggior parte dei casi i 5 maggiori istituti gestiscono più del 50% degli asset totali”.

Passi due-tre. Il 2 giugno 1992 il panfilo della regina Elisabetta II, il royal yacht Britannia è all’ancora nel porto di Civitavecchia. Vi salgono a bordo, invitati dai British Invisibles, influente gruppo di pressione del mondo finanziario londinese, finanzieri e banchieri del calibro di Barclays, Barings, Goldman Sachs, Warburg, PricewaterhouseCoopers. C’è anche il filantropo George Soros. I presenti di parte italiana sono Mario Draghi, in qualità di direttore generale del ministero del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, presidente di Bankitalia, Beniamino Andreatta, che pochi mesi dopo sarà ministro del Bilancio, Mario Baldassarri, consigliere economico presso i ministeri Bilancio, Finanza, Tesoro, rappresentanti di Confindustria, i vertici di IRI, ENI, INA, Efim, Comit, le grandi società di Stato (i cosiddetti “gioielli di famiglia”) che sarebbero stati di lì a poco privatizzati e svenduti.

Scriveva Sergio Romano sul Corriere della Sera, il 16 giugno 2009: “L’uso del panfilo della Regina Elisabetta sembrò dimostrare che la crociera del Britannia era stata decisa e programmata dal governo di Sua Maestà. E il fatto che l’evento fosse stato organizzato da una società chiamata “British Invisibles” provocò una valanga di sorrisi, ammiccamenti e battute ironiche. Cominciamo dal nome degli organizzatori. “Invisibili”, nel linguaggio economico-finanziario, sono le transazioni di beni immateriali, come per l’appunto la vendita di servizi finanziari. Negli anni in cui fu governata dalla signora Thatcher, la Gran Bretagna privatizzò molte imprese, rilanciò la City, sviluppò la componente finanziaria della sua economia e acquisì in tal modo uno straordinario capitale di competenze nel settore delle acquisizioni e delle fusioni… Nel 1992 questa organizzazione capì che anche l’Italia avrebbe finalmente aperto il capitolo delle privatizzazioni e decise di illustrare al nostro settore pubblico i servizi che le sue imprese erano in grado di fornire.”

Forse sarò tacciata di complottismo, ma se appena il mese dopo, l’11 luglio 1992, con il decreto legge n. 333, il governo tecnico di Giuliano Amato, sotto la guida del direttore del Tesoro Mario Draghi e della sua tecnostruttura, mise mano a una massiccia operazione di privatizzazioni delle aziende di Stato, immagino che le conversazioni sul Britannia avranno pur fornito qualche buon suggerimento.

Il primo passo del governo Amato (poi seguito dalle accelerazioni impresse dal governo di Carlo Azelio Ciampi) fu la trasformazione di aziende pubbliche in società per azioni di diritto privato; in una seconda fase si passò alla vendita delle azioni pubbliche sui mercati. Da allora, in circa dieci anni, sono state privatizzate aziende statali come l’IRI, l’Istituto per la ricostruzione industriale con circa 1.000 società al suo interno, sono state vendute grandi società pubbliche quali Telecom, INA, ENEL, ENI (quest’ultime due solo in parte), Comit, Credit e, come abbiamo visto nell’articolo precedente, sono state privatizzate praticamente tutte le banche prima controllate dallo Stato.

svendite di fine stagione

Ma il Tesoro ha venduto le società pubbliche al giusto prezzo? Questo aspetto non è stato mai affrontato seriamente ma alcuni affermano che se si mettessero a confronto i valori di vendita e gli attuali valori borsistici delle società alienate, si scoprirebbe che le privatizzazioni italiane nel loro complesso sono state delle vere e proprie svendite di fine stagione. La stagione che tramontava era quella dell’intervento dello Stato nell’economia per imboccare la via neo-liberista, figlia del pensiero americano e anglosassone, fondata sulla massimizzazione dei profitti a breve termine e sullo strapotere dell’economia finanziaria.

L’anno 1992 lo ricorderemo costellato di shock: il terremoto Tangentopoli (febbraio) che portò al crollo del sistema dei partiti (e alla successiva ricomposizione del sistema con altri mezzi), le stragi di mafia sotto il cui tritolo caddero i giudici Giovanni Falcone (maggio) e Paolo Borsellino (luglio), tragico assaggio della trattativa Stato-mafia; l’attacco speculativo alla nostra moneta (settembre) da parte dei grandi istituti finanziari d’oltreoceano e delle agenzie di rating, che portò la lira a svalutarsi del 30%. Per far fronte a tale svalutazione, la Banca d’Italia dovette impegnare 48-50 miliardi di lire delle sue riserve mentre nella notte tra il 9 ed il 10 luglio 1992 un decreto legge di emergenza autorizzò un prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti degli italiani. Il prelievo sui conti correnti, insieme alla neo-imposta straordinaria sulla casa, fruttarono insieme 11.500 miliardi di lire.

Altre letture dello strano incontro sul Britannia suggeriscono che la svalutazione di un terzo del valore della lira fosse una delle contropartite a breve, richieste dall’industria italiana per contrastare la concorrenza internazionale, specialmente quella francese e tedesca. Da lì sarebbe poi nato l’incamiciamento monetario attuato dapprima nel serpente monetario europeo, successivamente fissato nel corso dell’ECU e più tardi nell’euro a 1.936,27 lire.

Immersi in shock successivi, forse non ci accorgemmo che lo Stato stava privatizzando e svendendo un patrimonio collettivo, frutto dell’operosità di molte generazioni.

Marco Bersani, in “CatasTroika – le privatizzazioni che hanno ucciso la società” (Edizioni Alegre, 2013) ci fa notare che “nonostante i disastrosi risultati a livello economico, occupazionale e sociale, ormai da diversi anni è in atto addirittura un tentativo di radicalizzare le politiche di privatizzazione, coinvolgendovi altri importanti settori di rilievo sociale, come previdenza, sanità, istruzione, poste, trasporti e servizi pubblici locali. (…) A fine settembre 2011, l’allora ministro Tremonti ha chiamato a raccolta i grandi investitori italiani e internazionali, il gotha del sistema bancario e delle investment banks globali per sottoporre loro una sorta di “Britannia 2”, ovvero un altro mastodontico processo di dismissione del patrimonio pubblico del Paese, questa volta totalmente incentrato sul patrimonio immobiliare, demaniale e comunale, e sulle utilities locali. Piano ripreso con vigore dal successivo governo “tecnico” guidato da Mario Monti con l’obiettivo, naturalmente, di ridurre il debito pubblico e promuovere la crescita del Paese.
Abbiamo visto come è andata a finire”.

 

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