Carlo Cattaneo è un nome tanto noto quanto ignorati sono i suoi scritti. «Se questo autore è poco letto, lo si deve principalmente alla dignità della sua opera, che fu impostazione di problemi, concretezza di analisi, ossia preparazione di studioso e non sbandieramento di sonanti parole» (C. Berneri). Profonde distanze lo separano dall’idealismo del Mazzini, dalla sua «boria delle nazioni», a cui spesso viene a sproposito affiancato. Parlando di sé, lo stesso Cattaneo si descrive come «un po’ grosso di legname», «incurabilmente positivo», a sottolineare il suo interesse per i problemi concreti.
Fino al 1848 Cattaneo rimase fuori dal movimento per l’unità nazionale, non certo per vicinanza al regime austriaco, quanto perché, se il popolo italiano non aveva ancora le forze per liberarsi da sé, come egli riteneva, il dominio accentratore del Piemonte non sarebbe stato migliore di quello dell’Austria.
Un’idea di libertà molto concreta, pratica, gli faceva temere la monarchia sabauda, clericale, feudale, burocratica, più ancora dell’impero asburgico, nel quale intravedeva nonostante tutto maggior spazi di agibilità: «Quell’Austria federale che aveva potuto nello stesso tempo governare le Fiandre col consiglio di vescovi intolleranti, e Milano con quello di audaci pensatori, e regnare in Ungheria col libero voto di genti armate». «La libertà di cui parla nelle sue opere è quella, terra terra, degli individui e dei gruppi di fronte al pubblico potere, non quella sublime e solenne dello Stato che s’identifica con gli individui che lo costituiscono» (N. Bobbio).
La sua ponderata valutazione e il perseguire la situazione che garantiva una maggior autonomia e libertà, piuttosto che le metafisiche di un’astratta indipendenza nazionale in quanto tale, gli procureranno parecchie inimicizie da parte di unionisti e filosabaudi, che «lo assillavano sui loro giornali come amico dell’Austria e nemico del Piemonte e dell’Italia» (G. Salvemini).