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text-center space-top space-bottom">Con il Terzo Valico conquisto l’Europa

Perciò rimango veramente di sasso quando leggo prese di posizione d’imprenditori eccellenti, leader nel loro mercato, che danno per scontata la necessità di costruire certe grandi infrastrutture. E’ il caso del Terzo Valico di Genova. Indubbiamente il problema è diverso dalla Torino-Lione, l’opera viene giustificata come infrastruttura necessaria all’economia portuale, indispensabile per collegarsi ai nuovi tunnel del Gottardo e permettere agli operatori genovesi di allargare il loro mercato oltre la barriera alpina. Sulla carta può essere credibile ma ancora una volta non si può astrarre completamente da una storia e da una sequela di comportamenti di una classe imprenditoriale e di una classe politico-amministrativa che almeno dalla fine degli anni 70, dalla comparsa del container, non hanno fatto nulla per assicurare un’alternativa seria al trasporto merci su strada e si trovano oggi in una situazione – gli ultimi scioperi lo hanno dimostrato – completamente alla mercé dei camionisti, che possono, se decidono, con un fischio, paralizzare il porto (senza per questo, colmo dei colmi, trarre da questa posizione di forza condizioni di vantaggio economico, cioè tariffe e condizioni di lavoro migliori).

invece di guadagnarci ci perdono tutti

Una tipica situazione opposta al win-win, dove invece di guadagnarci ci perdono tutti, terminalisti, compagnie marittime, autotrasportatori, normali cittadini, residenti. Genova è passata dal fordismo al postfordismo, dall’industria pesante alla deindustrializzazione, è entrata nell’èra digitale, ha conosciuto il gigantismo navale ma nulla è cambiato. Il modello che si è voluto costruire per il porto è quello di un sistema di servizi che, per riluttanza a investire, in particolare in risorse umane e tecnologie, ha scelto la comoda strada di limitare il proprio raggio d’azione al mercato del Nord Italia. Le infrastrutture non c’entrano niente.

Mentre dagli anni 80 in poi dietro ai porti di Amburgo e di Rotterdam fioriva un tessuto fittissimo di imprese di logistica, capaci di creare valore aggiunto, a Genova si continuava a perseguire il modello dell’intermediazione priva di asset, sfruttando la rendita di posizione che ogni porto offre oggettivamente per puntare su un modello imprenditoriale, su un modello di business, che richiede il minimo sforzo, il minimo investimento. Poi ci si lamenta di avere imprese eufemisticamente classificate come “sottocapitalizzate”. E mi volete far credere che con il Terzo Valico o con la nuova diga cambierà qualcosa? Che di colpo nasceranno imprese di logistica in grado di servire i mercati del centro Europa? Accadrà probabilmente l’inverso e cioè che i porti nordeuropei e la rete di servizi che li supporta, in grado oggi di estendere il loro raggio d’azione fino a Novara, si spingeranno fino a Busalla, a Sampierdarena con il Terzo Valico. Non dimentichiamo che ci sono importanti opere di adeguamento dell’infrastruttura ferroviaria da parte di RFI, la stazione di Campasso e altre, ma nemmeno quelle riescono a tenere il passo di un’evoluzione dei traffici marittimi che è travolgente e si somma con altri fenomeni che producono congestione sulle strade e sulle autostrade, come l’ecommerce.

Queste opere non riescono – e non ci riuscirà il Terzo Valico, secondo me – a modificare un modello di sviluppo, un modello di business, perseguito con ostinazione per decenni. E’ mancata per tempo una visione di sistema, qualcosa per cui l’interesse privato deve trovare una sua collocazione dentro un interesse collettivo. Si sono sprecate occasioni irripetibili e si mortificano in ultima analisi i non pochi esempi di eccellenza a livello mondiale che Genova ha saputo creare e continua a creare. Per nascondere questa storia d’imprenditoria dalle corte vedute si è inventata la favola che i porti del Nord “rubano” traffico a Genova, la leggenda dei due milioni di TEU che Genova potrebbe “riprendersi” con il Terzo Valico. Un’idiozia irredentista che dimentica tra l’altro come una quantità di merce destinata all’Italia che passa per i porti del Nord è merce che noi importiamo dall’Irlanda, dalla Gran Bretagna, dalla Norvegia, dalla Svezia, dalla Finlandia, la quale segue la via più rapida e conveniente, quella di venir portata su un porto del continente – Rostock, Zeebrugge, Anversa – e lì trasbordata su treno; raggiunge l’Italia in 36 ore, anche meno. Cosa si dovrebbe fare, secondo certi politici e opinionisti genovesi, imbarcarla a Liverpool, a Goeteborg, e metterci una settimana/dieci giorni per sbarcarla a Genova? La vicenda della Carige mi sembra proprio lo specchio di una classe dirigente e imprenditoriale, mi piacerebbe sapere chi sono quelli che hanno avuto i crediti e non li hanno restituiti. Questa purtroppo è la “vera” Italia, quella che nasconde le sue magagne e le sue scelte miopi con il lenzuolo (o con il sudario) delle Grandi Opere.

Peggio di tutti il sindacato

Ma se certe prese di posizione mi lasciano di sasso, trovo semplicemente sconcertante, se non indecente, l’entusiasmo che le Grandi Opere suscitano in certi dirigenti sindacali. Un entusiasmo fideistico, privo di qualunque senso critico, come se il radioso futuro promessoci dalla Torino-Lione o dall’AV veneta potesse farci dimenticare la terribile situazione di vastissimi strati del mondo del lavoro, il cui futuro è segnato, tracciato, da un presente che parla per sé. Ritorna il tema del caporalato come fenomeno collaterale in un’economia sostanzialmente ”regolare”. Tutti sappiamo che cosa succede nella raccolta della frutta e della verdura, non solo nel Sud. Le inchieste del quotidiano cattolico “L’avvenire” ci hanno fatto intravvedere solo degli spiragli di una situazione che si allarga a macchia d’olio. Lavoratori extracomunitari e italiani pagati 3 o 5 euro all’ora, alloggiati in condizioni primitive, ricattati, che ormai stanno fissando i nuovi standard del costo del lavoro in agricoltura.

Mi chiedo: com’è possibile tornare indietro? E’ appurato che i controlli e le sanzioni non servono a niente, quindi è ovvio che il fenomeno è destinato a dilatarsi ed a diventare “la nuova normalità”. Ciò significa, se vogliamo parlare al futuro, che mettiamo in conto che l’agricoltura italiana è destinata a reggersi su forme di schiavismo “strutturale”. Ma l’agricoltura non è l’unico settore dove questo accade, in misura ridotta lo incontriamo anche in settori dove l’Italia pretende di essere leader mondiale, come la cantieristica. Il sindacato ha fatto molte denunce. A che sono servite? A mettere in pace qualche coscienza. Se poi dalle situazioni estreme passiamo a quelle che sono invece le situazioni maggioritarie, per esempio il primo impiego dei giovani oppure, all’estremo opposto, le opportunità che il mercato italiano offre ad alte professionalità e competenze, credo si possa concludere che a) questo, della qualità del lavoro, è il più grave, il più drammatico dei problemi del Paese, b) che le infrastrutture non c’entrano nulla.

con quale faccia tosta un sindacalista sostiene le grandi opere?

I giovani fisici, biologi, ingegneri, medici, ricercatori d’alto livello che fuggono dal Paese lo fanno perché mancano le infrastrutture? E realizzando le cosiddette “Grandi Opere” pensiamo di farli tornare indietro, pensiamo di eliminare il caporalato dalla raccolta dei pomodori? Con quale faccia un sindacalista può sostenere che le “Grandi Opere” possono contribuire a risolvere il problema occupazionale, sapendo oltretutto che questo problema oggi è di tipo qualitativo non quantitativo? Il sistema dei grandi appalti pubblici si è rivelato invece un sistema fallimentare, avrebbe potuto almeno creare il terreno adatto alla costituzione e alla crescita di grandi imprese di costruzioni, invece ne abbiamo viste fallire una dietro l’altra, sia dell’universo confindustriale che di quello cooperativo. Viviamo nella knowledge economy, viviamo nell’epoca della digitalizzazione, ma al posto della materia grigia abbiamo messo il cemento.

Grandi progetti: dove tutto è ammesso, anche l’idiozia

Può succedere allora che un organismo di ricerca privato che ha come missione “di rendere accessibile e fruibile, ad una platea sempre più vasta, il patrimonio di conoscenza e di esperienza accumulato in trent’anni” abbia la buona idea di presentare davanti a un folto pubblico di amministratori, operatori e cittadini, in quel di Palermo, uno studio nel quale propone la costruzione di un terminal portuale di transhipment dalla capacità di 16 milioni di TEU, in grado di creare migliaia di posti di lavoro nel contesto di un progetto più ampio di risistemazione del fronte mare che dovrebbe produrre occupazione per circa mezzo milione di persone. Per chi ha un minimo di conoscenza di economia portuale è come se un primario d’ospedale si presentasse ad un congresso dicendo che il cancro al seno si può curare con successo con la tachipirina. Il traffico totale dei porti italiani governati da un’Authority (sono circa una ventina) da più di dieci anni non supera i 10 milioni di TEU.

Si tratterebbe oltretutto, nell’idea dei proponenti, di un porto di transhipment, cioè di una tipologia che non produce occupazione né ricadute sul territorio in quanto la merce non esce dalla cinta portuale, viene sbarcata da una nave, messa a piazzale e reimbarcata su un’altra nave. Operazioni che vengono fatte a Gioia Tauro, a poca distanza, ma con sempre maggiori difficoltà perché le compagnie marittime oggi o fanno dei servizi diretti, senza transhipment, o fanno trasbordo in porti come Port Said, il Pireo, Malta, Tanger Med per ragioni che qui è troppo lungo spiegare ma che si presume siano note a chi pretende di avere una certa expertise in materia. Confesso però che non ero presente a questo evento memorabile, l’ho letto sui giornali e quindi mi rimane il dubbio trattarsi di una fake news. Strano che non ci sia stata nessuna smentita, però. Pare inoltre che sia il Presidente del porto di Palermo sia il sottosegretario Rixi abbiano espresso in quella sede la loro “perplessità”. Ma se fosse vero, mi sembra indicativo di un clima, di una cultura, di un costume presenti nel Paese e cioè che di “Grandi Opere” se ne possono immaginare e proporre con fantasia da Giulio Verne, sapendo che una parte del pubblico ci crederà e sarà disposta ad applaudire la spesa. Per la “rinascita” del Mezzogiorno o per rompere l’”isolamento” dei piemontesi.

Sergio Bologna

 

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