Esiste veramente la “crisi economica”? Oppure siamo di fronte al collasso dell’ideologia del feticismo merceologico, uno dei molti temi che Marx affronta nel Capitale, uno di quelli che hanno segnato il pensiero critico del Novecento? Marx, di cui in questi giorni si celebra il bicentenario della nascita, anticipò ciò che non poteva vedere, ovvero gli effetti che la “reificazione” avrebbero prodotto sulla coscienza umana.
Dalle lunghe ombre della crisi come via d’uscita partiamo; alla ricerca di un approdo che esuli dalla trasformazione del mondo nel suo insieme in una merce.
Al di là della propaganda politica, per altro antica, si allunga un prospettiva culturale che apparentemente rappresenta una rottura: o una torsione. Chiusi dentro i parametri di bilancio nazionali – oggi addirittura costituzionalizzati – inchiodati alla rigidità monetaria, rimane aperto l’enigma di come far sviluppare un paese che “vanta” il 20% di disoccupazione nelle regioni meridionali. Ma la situazione non è molto migliore nel nord italiano, ove la rendita maturata nei decenni precedenti viene assorbita lentamente dalla cosiddetta generazione “millennial”, la generazione smarrita tenuta insieme dallo stato sociale privato familistico.
Si alza dalle nebbie dell’austerità di matrice nord europea la doppia ipotesi. La prima: rompere con i trattati europei. Seconda: portare la crescita ad un livello tale da poter sostenere il taglio del debito pubblico in un ordine del 4% annuo.
La prima appare improbabile per mille ragioni, tutte note. Per quanto possa sembrare quella più facilmente percorribile, i rapporti di forza non permettono. Poco importa che sempre più spesso in Europa organizzazioni culturali anti austerità si impongano in sede democratica: il debito pesa molto più dei voti.
E’ bene avere piena coscienza di questo principio, per altro antichissimo: David Graeber, antropologo statunitense, nel suo splendido libro “Il debito, storia dei primi 5000 anni”, spiega perfettamente come il contesto attuale non sia una novità storica. Ma anzi rappresenti una coazione a ripetere molto nota.
Preso coscienza che il movimento di rottura al momento non ha possibilità di imporsi, si apre uno spazio per la seconda prospettiva, che si posiziona sul lato opposto della percezione umana, quello dell’utopia.
Ne “La storia dell’Utopia”, Lewis Mumford scriveva, nel lontano 1922: «L’uomo cammina con i piedi in terra e la testa per aria; e la storia di ciò che è accaduto sulla terra, la storia delle città, degli eserciti e di tutte quelle cose che hanno avuto corpo e forma, è solo una metà della storia dell’uomo. L’altra metà è rappresentata proprio dall’utopia. Utopia – dice Mumford nella prefazione – può derivare dalla parola greca eutopia, che significa il buon posto, o dall’altra parola greca outopia, che significa nessun posto». Nei prossimi paragrafi terremo fede solo alla prima accezione. In maniera critica però.