Il prodotto interno lordo – le critiche in questo caso si sprecano ed è accertata la sua inutilità, ma prendiamolo come parametro di più immediata comprensibilità e fruibilità – può crescere dell’otto per cento annuo, affinché il debito pubblico sia tagliato del 4%? Si tratta di ritmi di crescita cinesi, o post bellici per quanto concerne l’Italia. In entrambi i casi si tratta di ritmi di crescita dovuti a importanti, se non predominanti, fattori di intervento pubblico.
Di cosa stiamo parlando innanzitutto: molteplici analisti sostengono che tale progressione, si possa ottenere attraverso politiche neo keynesiane. Il neo keynesismo è un soggetto sfuggente, che concentra la sua ambiguità nel prefisso “neo”. La Nuova economia keynesiana ovviamente rinobilita la matrice originaria, ma si allontana da essa su più punti. Il neo keynesismo oggi ha la caratteristica di avere una alta intensità di capitali, ovviamente pubblici, ed una bassa intensità di lavoro. Non a caso al centro del ragionamento vi è la netta prevalenza delle leve fiscali e monetarie.
Ma ciò che rende prevalente il capitale sul lavoro, è soprattutto l’automazione dei processi produttivi. Semplificando: le opere pubbliche novecentesche oggi necessitano di capitali molto maggiori, mentre sul piano della forza lavoro impegnano sempre più trascurabili masse di lavoratori. Non è qui che possiamo analizzare l’innegabile correlazione tra i processi di automazione del lavoro e lo sfaldamento della forza lavoro.
Dato per scontato che il territorio è ormai infrastrutturalmente saturo, l’indicatore principe di questa condizione è dato dalla meccanica reazione delle popolazioni coinvolte, il neo keynesismo sempre più spesso abbraccia una visione immateriale dell’economia. Principio affascinante, che ha trovato pieno approdo nel cosiddetto processo “riqualificativo” dei centri urbani orfani dello sviluppo capitalistico novecentesco. Riqualificazione portata avanti attraverso interventi di “sventramento urbano” – che per altro hanno dato vita a controversi fenomeni di gentrificazione – nonché al primato del grande evento: Olimpiadi, Giochi, Festival. (Ci torneremo in uno dei prossimi articoli.)
Il fenomeno ha assunto dimensioni notevoli durante il ventennio a cavallo della fine del secolo. Smarrita la funzione produttiva, è stata proposta la via del loisir, del piacere, della cultura, dell’immaterialità. Un primo bilancio lascia luci ed ombre per questo passaggio storico ed, è bene sottolinearlo, irreversibile. L’impatto sul duro, la caduta senza freni da parte della working class, è risultato attutito, senza dubbio. Se Torino non è diventata Detroit, nemmeno è riuscita a decollare.
D’altra parte, l’impostazione del sistema finanziario/bancario – oggetto di una feroce privatizzazione di stampo chiaramente reazionario negli anni novanta – ha aperto la strada al perverso meccanismo del debito: lo Stato, ormai sul viale del tramonto, si è ritrovato a non poter più finanziare se stesso e a dover ricorrere sempre più, soprattutto per le sue politiche neo keynesiane, a soggetti squisitamente privati, con interessi privatistici anche se la radice del rischio affonda comunque sui pubblici beni. Perfino gli ultimi rimasugli di finanza pubblica, la Cassa Depositi e Prestiti, si sono ridotti ad applicare condizioni capestro contro le istituzioni statali che a lei si rivolgevano, comuni importanti (Brescia) si sentono taglieggiati.