Era il 2001 quando incontrai per la prima volta la lotta di un popolo per la terra e, in definitiva, per il diritto a una vita con valori diversi dal puro e semplice gigantismo sviluppismo.
Pochi mesi prima ero uscito da una fabbrica di Moncalieri dove potei sperimentare per lunghi anni il concetto di alienazione, di totale perdita di senso della vita. Producevamo pezzi di ferro per mezzi di trasporto da cantiere: balestre, supporti, boccole, staffe, cose così.
Odore di ghisa e grasso facevano parte di me.
Dopo qualche mese da quella scelta ero nel cuore della foresta colombiana, nella regione del Boyocà, al confine con il Venezuela, disperso nel resguardo di una popolazione indigena: gli U’wa.
Trovai la loro storia su un foglio del Corriere della Sera raccolto per terra, raccontato dal mitico Ettore Mo.
Non avendo meglio da fare nella vita decisi che avrei fatto parte di quella storia.
Gli U’wa, da anni, si opponevano alla costruzione di un pozzo petrolifero all’interno del territorio dove vivevano da tempo immemore, e chiedevano aiuto a tutti coloro che credevano in un’altra forma di sviluppo nel mondo: fondato sulla natura e non sullo sfruttamento della natura.
Minacciavano, qualora il processo di perforazione fosse proseguito come da progetti della multinazionale Oxi, una delle famose sette sorelle, il suicidio di massa.
Insieme ad altri italiani li raggiunsi.
Il loro resguardo, dove ci portarono dopo un lungo e pericoloso viaggio, si sviluppava per centri concentrici: in quello esterno vivevano gli “indios” ormai integrati nel mondo occidentale, e man mano che si proseguiva verso l’interno si raggiungevano stadi di isolamento maggiori.
L’esperienza laggiù, insieme ad altri occidentali, consisteva in un lavoro di peace keeping, ovvero andare a interporsi con il proprio corpo, e soprattutto col proprio passaporto e i propri caratteri somatici, laddove vi erano i lavori di cantieramento della Oxi.
Ma la Colombia al tempo era un paese in guerra: con la guerriglia marxista, con i paramilitari fascisti, con il governo che usciva da un enorme scandalo che lo vedeva coinvolto pesantemente con i narcos del cartello di Cali, con i “gringos”, con la povertà, con una criminalità senza controllo.
Gli U’wa vivevano, e vivono, al centro di tutto questo.
La nostra avventura di occidentali ricchi, coraggiosi e terzomondisti si schiantò contro una colonna armata delle Farc, venuta a rapirci. Ci avevano tollerato per settimane, lì in mezzo alla loro foresta, tra immense piantagioni di coca e traffici di ogni tipo. Ci avevano tollerato ma poi, quando si accorsero che la vicenda degli U’wa metteva a repentaglio l’investimento della Oxi – che loro taglieggiavano – decisero che il nostro turismo guerrigliero poteva serenamente concludersi.
Tornati dalla foresta, dopo un’azione al sito petrolifero, trovammo gli indios armati intorno alla nostra casetta.
Diluviava a grosse gocce e io desideravo solo un grossa bistecca e una birra cerveza ghiacciata. Dopo ero con lo zaino in spalla, in viaggio verso non si sa cosa.
Gli indios, degli uomini piccoli e mansueti, pesantemente armati, ci fecero scappare nella foresta e dopo un lunga marcia durata giorno e notte, sempre scortati, giungemmo in un piccolo aeroporto dove ci infilarono su un aereo.
Ci spedirono a Bogotà, e di lì in Italia.
Più tardi seppi che un ragazzo statunitense era stato ucciso in uno scontro a fuoco.
Gli U’wa hanno vinto la loro lotta; la concessione governativa, passata di multinazionale in multinazionale nel corso degli anni, è stata abbandonata dalla Repsol.
Su di loro scrissi il mio primo reportage, nel dicembre 2001.