Alcuni anni dopo, trovai quella storia a casa mia, in Val Susa, per le vicende dell’alta velocità Torino-Lione che non riassumo giacché universalmente conosciute.
quel tratto comune
Le dinamiche erano le stesse della Colombia, ovviamente con un grado di violenza infinitamente minore. Ma tra quel popolo e quello della valle esisteva quel tratto comune, quella voglia di contestare alla radice l’intero apparato ideologico che soggiace al primato dello sviluppo capitalistico.
In origine l’opposizione al supertreno fondava su un principio fisico: “più di così un territorio non si può sfruttare e dovete lasciarci in pace. Questa terra ha il diritto di stare tranquilla”.
Che sia capitalismo reale, o capitalismo di Stato, o socialismo, ciò che finiva sotto giudizio era il mito dello sviluppo infinito all’interno di un contesto finito. Ovvero quanto sostenuto dal Club di Roma nel 1970.
I limiti dello sviluppo in Val Susa sono stati raggiunti e ampiamente superati, si rivendicava quindi il diritto ad una vita senza ulteriore “crescita”.
Nei primi anni duemila, mentre in una dispersa foresta amazzonica e in una valle italiana si contestavano pesantemente i miti del gigantismo, si affacciava l’utopia – ma l’utopia altro non è che uno sguardo in un futuro lontano ma certo – decrescista di Serge Latouche, evoluzione di infinite teorie filosofico-religiose precedenti, ben presto inglobata, divorata, digerita e resa produttiva dal sistema capitalistico. Trasformata essa stessa in un prodotto di consumo.
Ho seguito le vicende della Val Susa, come narratore e militante, per lunghi anni e tuttora lo faccio.
Ho fatto tutto quello che c’era da fare: dai presidi agli scontri più violenti, scritto libri, articoli, litigato con i parenti, litigato con i Notav stessi.
Ad un tratto, nel momento di maggiore pressione, il movimento Notav scartò dalla linea degli U’wa – dalla linea “mo’ basta” – che semplicemente rivendicava il diritto a vivere in un posto decente, sano, non inquinato, in un luogo non devastato in nome dello sviluppo.
Un principio squisitamente morale ed etico.
La lotta si spostò sul piano materiale: sul senso dell’opera. Anzi, sul senso economico dell’opera.
corde profonde
Decine di studi hanno dimostrato in seguito che il tunnel di base non ha alcuno senso trasportistico a fronte di costi fuori scala.
Era la chiave per raggiungere le corde profonde della percezione morale occidentale.
Non bastava dire “vogliamo vivere in pace”, era necessaria un’altra prospettiva, più potente della stessa vita.
La scelta si è dimostrata mediaticamente vincente, perché è andata a toccare quel motore unico che muove l’essere umano occidentale, che crea una morale sua, un’etica fuori dall’etica, mito fondativo e scopo ultimo dell’umanità. L’unico vero dio sopravvissuto, ma d’altronde era il timore principale dello stesso Gesù Cristo, alla furia anti religiosa degli ultimi due secoli.
Il denaro.
Golder è divenuto un paradigma costruttivo e collettivo
Viviamo dentro le pagine del libro “Golder” straordinario personaggio archetipico creato dalla penna di Irène Nèmirovsky: lei pensava di ritrarre il modello umano dell’abbrutimento, Golder è divenuto un paradigma costruttivo e collettivo.
Il materialismo economico Notav, che anche io ho usato a piene mani mosso da un principio machiavellico – nonché l’editore di trancemedia.eu attraverso il mastodontico documentario Tavchisì – ha camminato sulle sue gambe diventando una arma di distruzione potentissima, in grado di annientare la retorica sviluppista dei proponenti, ridottasi a chiamare in causa Cavour e visioni antiche di quasi due secoli.
Ridottisi a manipolare l’informazione con chimerici traffici globali, di cui non si sa bene chi senta la necessità in un mondo ormai all’interno di una crisi ecologica distruttiva e irreversibile. All’interno della sesta estinzione di massa. Oggi.
Il tempo corre e si giunge ai giorni nostri in cui un nuovo governo italiano delega la scelta di realizzare l’opera, un mega tunnel di base, a una valutazione costi-benefici. Che, ovviamente, non potrà che avere esito negativo, giungendo quindi – se non subentreranno fattori esogeni – al blocco dell’opera. Ovvero allo stesso risultato ottenuto dagli U’wa in Colombia.