Lo scoppio dei mutui cosiddetti subprime affonda le radici nelle misure di liberalizzazione dei mercati finanziari, di “fusione” tra banche commerciali e banche di investimento, di abolizione del controllo federale su queste ultime. Tali misure incentivarono una enorme concentrazione dell’industria finanziaria in pochi grandi colossi che raccoglievano risparmi, concedevano prestiti, operavano in borsa, generavano e scambiavano prodotti finanziari di ogni genere.
Alla fine degli anni ’90 in America, il mutuo ipotecario era uno dei prodotti più venduti. Gli immobili si collocavano tra i prodotti di investimento più appetibili grazie anche alla politica monetaria della Federal Reserve, che incoraggiava la concessione di prestiti a tassi di interesse ai minimi storici.
Le istituzioni finanziarie iniziarono a stipulare mutui non solo con debitori certamente solvibili (la clientela prime), ma anche con debitori a rischio insolvenza (subprime), ovvero persone che non potevano offrire garanzie né con il proprio lavoro, né con un reddito e neppure con beni immobili.
Marco Bersani lo descrive così in Dacci oggi il nostro debito quotidiano (DeriveApprodi, 2017): “Con il cinismo connaturato ai soggetti, questi prestiti venivano definiti dai banchieri prestiti al neutrone perché nella loro idea – analogamente agli effetti della bomba al neutrone che uccide le persone ma lascia intatti gli edifici – questa operazione avrebbe sicuramente mandato in fallimento i poveracci che si erano indebitati, ma il mancato recupero dei crediti sarebbe stato compensato dalla requisizione degli immobili che avrebbero poi potuto essere rivenduti sul mercato… Questo meccanismo si è progressivamente esteso a tutti i consumi della popolazione, attraverso la massiccia diffusione delle carte di credito, utilizzate per ogni tipo di acquisto.”
Quando l’accumulo di questi investimenti ad alto rischio superò la soglia di guardia, la finanza si diede alla creazione – senza limiti – di prodotti innovativi da vendere sui mercati globali, soprattutto quelli “over the counter”, fuori dai mercati regolamentati. Quelli che sono stati definiti titoli tossici (o anche salsicce finanziarie) annidavano, all’interno di innocenti obbligazioni, rischi di credito e insolvenze. La mancanza di trasparenza e la complessità di tali prodotti rendeva impossibile sapere chi deteneva pezzi di debito avariato: il rischio era stato suddiviso e sparso in giro per il mondo. Il contagio era dietro l’angolo.
Una bella mano nella diffusione di questi titoli spazzatura la diedero anche le agenzie di rating – Standard and Poor’s, Moody’s e Fitch – che mettevano la mano sul fuoco sugli alti livelli di sicurezza di questi titoli.
Quello che si è prodotto è stata una gigantesca redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto: dal 2000 al 2007 furono concessi 14 milioni e mezzo di mutui ad alto rischio e le banche americane realizzarono profitti enormi. Gli attivi finanziari nel 2007 superavano di quattro volte il Pil mondiale (240mila miliardi di dollari contro 60mila). Nel 2008 i capitali gestiti da fondi di investimento e compagnie finanziarie ammontavano a 60mila miliardi di dollari, 600 volte di più che nel 1990.
La clientela subprime, che all’inizio aveva contratto prestiti con bassissimi tassi di interesse, non immaginava che il tasso variabile potesse crescere esponenzialmente (in certi casi è arrivato al 26%).
Un’indagine della Federal Reserve ha messo in luce che tra il 2004 e il 2006 i cittadini afro-americani avevano il triplo di possibilità di ricevere un mutuo a condizioni svantaggiose rispetto ai bianchi, a parità di reddito e situazione lavorativa.
In poco tempo i mutui non poterono essere più restituiti e tra il 2008 e il 2010 tre milioni di americani si ritrovarono in strada, con la casa pignorata dopo averla ristrutturata con i propri soldi.
Anche milioni di immobili si ritrovarono contemporaneamente sul mercato con una conseguente forte perdita di valore. La spirale era avviata ed è stata inarrestabile.
Le agenzie di rating iniziarono a declassare i titoli tossici. I primi colossi caddero. Il 15 settembre 2008 la banca di investimento Lehman Brothers – la quarta banca degli States – dichiarò fallimento con 600 miliardi di crediti immobiliari inesigibili in pancia.
Ma i colossi finanziari avevano assunto rischi sempre maggiori perché sapevano di essere “too big to fail”, troppo grandi per (essere lasciati) fallire.
Il 21 settembre 2008 le banche di investimento Goldman Sachs e Morgan Stanley ottennero l’approvazione della Federal Reserve per diventare banche ordinarie e poter così accedere ai prestiti di emergenza della Fed e salvarsi dal fallimento.
Subito dopo il crack di Lehman Brothers, il 2 ottobre 2008, il governo americano mise in atto il piano di salvataggio TARP (Troubled Asset Relief Program), per la messa in sicurezza del sistema finanziario del paese, e sborsò alle banche 700 miliardi di dollari. Ma non si fermò lì.
Fortuna che la dottrina liberista alla Milton Friedman predicava il non intervento dello Stato nell’economia.