Dopo il remake dei “40.000”,
l’Onda-Sì-Tav “spintanea” (Claudiogiorno)
si abbatte sulle capacità cognitive
e l’intera città resta afasica.
Inviato del samizdat:
Maurizio Pagliassotti
Dopo il remake dei “40.000”,
l’Onda-Sì-Tav “spintanea” (Claudiogiorno)
si abbatte sulle capacità cognitive
e l’intera città resta afasica.
Inviato del samizdat:
Maurizio Pagliassotti
Oltre i limiti dello sviluppo.
Sarebbe stato interessante domandare ai manifestanti di sabato mattina: “se in questo momento giungessero altre 40.000 persone, in questa piazza, e volessero entrare a ogni costo… voi cosa gli rispondereste?”.
La piazza di sabato mattina a Torino, che ad appena due giorni dalla materializzazione è già stata trasformata in qualcosa di diverso e decisamente più scontato – la nascita di un partito – aveva come obbiettivo la realizzazione della Torino-Lione: anzi, del secondo tunnel Torino-Lione, quello alla base della montagna.
Perché?
Come già affermato diversi anni fa da Luca Rastello “la Val Susa è il punto della galassia più lontano da Torino”, i torinesi non hanno alcun rapporto con la valle, sopratutto i torinesi che erano in piazza.
Quella lunga lingua di terra pianeggiante che improvvisamente, dalle parti di Susa, inizia ad arrampicarsi in montagna altro non è che un corridoio obbligatorio che porta alle piste da sci di Sestriere, Salice d’Ulzio, Claviere, alla via Lattea. Al di là della dimensione geografica che certifica la lontananza, la maggiore lontananza esistente in natura, della città dalla sua valle, esiste una lontananza ancora superiore, siderale.
La lontananza ideologica, che si evince dalle parole di una delle sette organizzatrici della manifestazione di sabato, Giovanna Giordano, quando pubblicamente chiede ai valligiani notav di “scegliere una delle meravigliose valli del Piemonte e lì spostarsi con una pecora o una mucca. E che lascino vivere noi”.
Una battuta di spirito, si dirà.
Ma, come sempre accade, dietro il lazzo si nasconde una verità, ovvero il nodo grosso giunto al pettine, quello dei limiti dello sviluppo. Cosa si fa di un territorio che ha raggiunto tale confine? Come un piazza strapiena dove però si vuole entrare a tutti i costi, sfidando la legge sull’impenetrabilità dei corpi. Si deporta altrove chi tenta di opporsi?
Nell’epoca della post ideologia questa è la visione più ideologica di sempre.
Lasciamo perdere ogni considerazione tecnica, ogni confutazione scientifica, lasciamo perdere la salvifica valutazione costi-benefici.
Nel caso della Val Susa, le risposte vengono affidate niente meno che a valori, non in senso greco, econometrici.
Ci si affida, come fa il ministro, a valutazioni scientifiche che saranno validate da esperti.
Esperti che, si immagina, avranno come unico scopo mettere in una speciale partita doppia costi e ricavi.
Un numero dovrà dire se non fare il tunnel di base della Torino-Lione vale più che realizzarlo.
Nell’epoca della post ideologia questa è la visione più ideologica di sempre.
Ed è per questa ragione che ci troviamo all’interno di un circolo vizioso semantico, in cui non troviamo le parole per controbattere a quella piazza e a quella classe. Parole che ci costringono a giocare in difesa.
Chiusi dentro lo stretto recinto dell’ideologia ordoliberista, una mescolanza di libero mercato e autoritarismo non a caso teorizzata negli anni ’30 del secolo scorso, in Germania.
Rimaniamo senza parole, per contrastare quella piazza che inneggia al lavoro, allo sviluppo, alla crescita.
Si dovrebbe avere il coraggio di contrastare e contestare questi principi, in virtù del limite raggiunto.
Sostenere apertamente che nessun esperto può sindacare, in base a dei numeri, che la mia vita può essere distrutta o meno.
La piazza di Torino ha gioco facile nel denigrare la Val Susa, perché la grande città cerca ancora spazi per il suo sviluppo, per la sua crescita, per il suo lavoro. Divorata da una crisi del settore manifatturiero, pensa di trovare sfogo attaccando una valle, dichiarandole guerra fisicamente, schierando le truppe e mostrandole in parata nella sua piazza.
La prospettiva è molto più profonda e ardita di quanto il singolo punto, ovvero l’opposizione al tunnel di base della Torino-Lione, lasci supporre.
Il nodo è strettamente ideologico, nel senso più puro del termine. In Val Susa, come in Puglia, a Genova e nell’entroterra ligure sta dilagando una nuova ideologia fondata sulla pianificazione economica… e qui manca l’aggettivazione.
Si potrebbe inquadrare facilmente con la “decrescita”, ma questa parola evoca simboli insuperabili. E’ inutilizzabile, è dannosa.
L’evocazione di un nuovo modo di vedere la vita, quanto meno nell’occidente ormai ipertrofico e ultrasviluppato, avanza ma è privo di parole, di storie, di esempi, di orgoglio.
A meno di piccoli punti, che possono essere avanguardie, manca la prassi diffusa: l’orgoglio che porta a una rivendicazione di massa.
passa da ideologia a narrazione a storytelling
L’evoluzione storica che passa da ideologia a narrazione a storytelling ha azzerato il nostro lessico famigliare, lasciandoci in un punto della storia privi di parole.
Come in quegli incubi in cui si vuole urlare ma le parole non escono.
Così sui media di massa, compresi i famigerati social che altro non fanno che rendere ridondante il messaggio che nasce sulla carta stampata e sulle televisioni, erompe una reazione laddove non vi è stata alcuna rivoluzione.
Sarebbe stato interessante domandare, a quella piazza che chiede sviluppo e auspica che i cittadini della Val Susa se ne vadano con mucche e pecore da qualche parte, cosa pensano del riscaldamento globale.
Sicuramente buona parte di essi avrebbero sgranato gli occhi preoccupati, manifestando vivo sconcerto e sincero terrore per il realizzarsi, in tempi assai più celeri di quanto avvenuto, dei peggiori scenari climatici ed ecologici.
Sabato mattina, in piazza Castello, si poteva stare tranquillamente in giacchetta: al dieci di novembre, a Torino, come se fossimo stati a fine aprile. E in una giornata piovosa.
l’architrave su cui poggia l’impalcatura del surriscaldamento climatico
Tutti i mezzi di informazione di massa sono passati, con soluzione di continuità, dalla denuncia della catastrofe ambientale a Belluno e in Sicilia – unanimemente imputata ai cambiamenti climatici – alla richiesta perentoria di nuovo sviluppo infrastrutturale, nuovo commercio, nuovo mercato, nuovo capitalismo, nuova trasformazione natura-capitale-forza lavoro- immondizia. Ovvero l’architrave su cui poggia l’impalcatura del surriscaldamento climatico.
In quella piazza, gremita allo spasimo, si aveva la sensazione di vivere in un mondo folle, che non sa cosa vuole.
Che vuole sempre più cose da commerciare a tutta velocità, per essere prontamente gettate nell’inceneritore o in una discarica, ma al contempo vuole fermare i cambiamenti climatici affinché le prossime generazioni non debbano vivere in un inferno dantesco.
Peraltro già presente qui ed ora.
parole impronunciabili di varia origine
Nonostante gli accorati appelli, nonostante le campagne mediatiche vagamente terroristiche – a ragione evidentemente – sui cambiamenti climatici irreversibili in cui viviamo, non abbiamo il coraggio di entrare in una fase successiva.
Troppa fatica.
troppa fatica
Dopo la doverosa denuncia ci si ferma ad un mordace auspicio che: gli esseri umani divengano improvvisamente più sensibili. I governi intervengano. La tecnologia salvi l’umanità con qualche gioco di prestigio.
Delle tre, la seconda è particolarmente misteriosa, enigmatica: forse si intende una pianificazione, parola impronunciabile, economica mondiale: fondata sulla decrescita, parola impronunciabile bis.
Una capriola della storia che porterebbe, niente meno, alla riscoperta dei piani quinquennali sovietici? Ovvero poche merci e, al massimo, un capitalismo di stato minimo.
Tutti gli accordi successivi agli accordi di Rio prima, e Kyoto poi, arrivando fino a Parigi, hanno sempre avuto la stessa caratteristica: la refrattarietà a ogni tipo di pianificazione fondata sulla limitazione dei consumi di combustibili fossili e non solo.
Il mondo non vuole sentir parlare del concetto di limite: d’altronde siamo tutti figli dei tempi in cui era “vietato vietare”.
Le alternative al governo mondiale fondato su tali limitazioni, traducibili in soldoni – per chi se li ricorda – in uno stile di vita simile a quello dei tempi dell’austerity, non sono reali.
Smaterializzazione economica fondata sulla miniaturizzazione dei manufatti?
Passaggio dall’economia materiale a quella della conoscenza?
Passaggio dalla proprietà privata all’accesso?
Internet delle cose?
Se ascoltiamo la piazza di sabato mattina possiamo escludere tutto questo.
Loro vogliono…
Loro vogliono proprio le cose, la roba, la proprietà, il commercio libero di tutto.
Eppure, proprio dalla Val Susa, nonché da tutti gli altri territori che tentano di resistere alla logica del gigantismo merceologico, all’obesità infrastrutturale, giunge la speranza che l’inevitabile cura dimagrante possa avvenire su un piano di coscienza attiva, anziché su quello dell’incoscienza passiva: e rancorosa.
Una scelta, al posto della inevitabile prossima imposizione coercitiva.
Ma quella valle, e quei territori, quei pensieri vengono derisi, i loro abitanti invitati a “spostarsi in un’altra valle con le mucche e le pecore”, ridacchiando: e tutto questo viene definito da uno storico come Giovanni De Luna, ex Lotta Continua, su le pagine de La Stampa: “una speranza”.
Maurizio Pagliassotti
Immagini in questa pagina, dall'alto: Berlusconi-Giachino ai tempi di palazzo Chigi e ministero infrastrutture; due illustrazioni di Pier Paolo Marchetti per TAV CHI Sì, 2015; Giovanni De Luna.